Tuo padre arrivò la mattina alle 7 con il giornale.
Io ero stata ricoverata il pomeriggio del giorno precedente. Esami del sangue, cena leggera, camomilla e a nanna. Tutto secondo programma.
Eh sì, perché il giorno della tua nascita lo conoscevamo già da tre settimane.
Nessuna attesa delle contrazioni o della rottura delle acque, nessuna conta (dieci minuti, cinque, tre... ci siamo!), nessuna corsa in ospedale. Nulla di tutto questo. Eppure, te lo assicuro, anche un parto cesareo programmato può essere emozionante.
Verso i sette mesi ti eri posizionato a testa in su. Il contrario di quel che dovrebbe succedere. Ma tu, caratterino, hai deciso così. E lo hai deciso anche per fare un piacere a me, che temevo il parto naturale per i due interventi alla schiena subìti in passato.
Così, sapevamo che saresti nato il 21 novembre.
Quella mattina tuo padre mi scattò un paio di foto mentre leggevo il giornale in corridoio, in piedi, in camicia da notte, vestaglia e ciabatte. Due ore dopo saresti nato.
Verso le 8 un'infermiera mi preparò per l'intervento. "Poi passo per la profilassi per questa faccenda dell'endocardite batterica...".
Endoche?
"Sì, l'endocardite batterica, c'è scritto nella sua cartella".
"Io non ho la più pallida idea di cosa sia, non l'ho mai sentita nominare!".
"Sono sicura, c'è scritto, comunque ora controllo".
"Se mi avete trovato qualche malattia con gli esami di ieri voglio saperlo, ma vi giuro che io non ho mai avuto 'sta cosa!!!".
Cominciai ad essere un tantino nervosa. Quando tornò, si scusò ("c'è stato un errore") e mi diede due pillole. Le guardai con sospetto: "E queste a che servono?". "Si danno a tutte, è un antibiotico". Uhm.
Quindi arrivò l'infermiera della sala operatoria. Io nel letto, impietrita, a pensare a quel che stava per accadere. Tuo padre di fianco a me, sorridente ma teso.
"Ti amo", "ti amo".
Chissà che cosa si prova, a stare dall'altra parte della porta.
Entrammo nell'anticamera della sala operatoria e mi fecero accomodare su un lettino gelido. In fondo al corridoio, la ginecologa che mi avrebbe operata. Avevo saputo il suo nome soltanto il pomeriggio precedente, ed era il peggiore che mi potesse capitare tra tutti i ginecologi dell'ospedale. Quattro mesi dopo, sarebbe andata in pensione.
"Questa è l'endocardite batterica?", urlò con voce stridula. E dentro di me un grido soffocato: "No, cavoli, non sono io! Ci sarà stato uno scambio di persona!!". Per fortuna l'infermiera replicò subito: "No, non è lei".
Mi portarono in sala operatoria. L'equipe era in gran parte femminile, a parte un ostetrico e un ginecologo di supporto. Ero il loro primo intervento della giornata e chiacchieravano del più e del meno. Mi misero a sedere per l'iniezione nella schiena: anestesia spinale, simile all'epidurale ma più profonda. L'anestesista cominciò a inveire contro le mie vertebre: "Non trovo lo spazio!". Così, tanto per favorire il mio rilassamento... Pochi secondi dopo cominciai a non sentire più le gambe. Una sensazione agghiacciante.
"Ah, purtroppo c'è un problema". Sentiamo... "Nella sua cartella non c'è l'esame dell'Hiv, le dobbiamo fare un prelievo, serve il suo consenso". Come non c'è? Ieri l'ho portato, come tutti gli altri esami!
"Guardi, l'infermiere si deve essere dimenticato di trascriverlo. Le facciamo un prelievo, firmi qua". Pure questa...
Mi aiutarono a sdraiarmi, ormai fantoccio nelle loro mani, e mi legarono con le braccia aperte a croce. Cominciai a piangere. Finalmente la paura si sciolse... Desideravo conoscerti, ormai pochi minuti mi separavano da te, ma avevo il terrore che qualcosa andasse storto. Se avessi potuto, sarei tornata indietro per rivivermi tutta la gravidanza, giorno per giorno. Ti ho amato così tanto, dentro di me... sarebbe stato lo stesso anche fuori?
Sentivo sempre più freddo, le loro voci lontane e distorte, come sott'acqua. Un lenzuolo mi impediva la vista del mio corpo dal seno in giù.
Cominciarono ad armeggiare sul mio ventre. Io cercavo di capire cosa facessero, chiesi anche spiegazioni, avrei voluto sapere attimo per attimo quello che stavano facendo. "State tagliando?", "Non ancora, la stiamo preparando...".
L'anestesista era seduta di fianco a me e cercava di distrarmi. Sentivo la gola serrata, come se l'anestetico fosse salito fino alla trachea. "Non respiro bene...". Mi misero la maschera dell'ossigeno. Da quel momento i ricordi sono confusi. Ma non posso dimenticare la ginecologa che dice con tono sgradevole "ecco, mi ha inondata di liquido amniotico...". Poi un movimento ritmico, come un mattarello sulla mia pancia. Una voce indistinta annunciò: "Il sedere è fuori!".
Intuii movimenti concitati attorno al mio corpo.
"Qualcuno le aveva fatto la stima del peso fetale?", mi chiese la ginecologa. "E' un ragnetto...".
Come? Cosa?? "Dottoressa, l'ultima ecografia me l'aveva fatta lei alla 32.a settimana... allora era di 2 chili e 200, l'ha detto lei...".
Silenzio.
Ma allora sei nato. Loro ti vedono! Perché non piangi? Che cosa sta succedendo? C'è qualcosa che non va??
Non so che cosa dissi con esattezza, in quei lunghissimi secondi, ma un'infermiera mi tranquillizzò: "E' un bambino normalissimo, signora, non si preoccupi". E finalmente sentii la tua voce.
Un minuto dopo ti appoggiarono sul mio petto, davanti ai miei occhi. Non potevo abbracciarti e non riuscivo a guardarti in faccia. "Gabriele, amore mio, hai una mamma vecchia... - dissi - sono presbite, non ti vedo!". Non è la frase più romantica che una madre possa dire a suo figlio al primo incontro, lo ammetto. Ma è così che andò.
Poi ti portarono via da me: ti misero in termoculla e ti portarono fuori, dal papà. Assieme andaste nella nursery, dove saresti dovuto rimanere in osservazione un'ora. E' prassi. Intanto mi ricucivano, un'operazione interminabile. Ma il vero intoppo fu burocratico: la ginecologa era sparita senza firmare la cartella. Dimenticanza che mi costrinse a rimanere nell'anticamera della sala operatoria per un'altra mezz'ora. Ero furiosa! "Ho visto mio figlio per un minuto, fuori non hanno idea di cosa stia succedendo, è un'ora e mezza che sono qui dentro, voglio uscire!!!".
Finalmente mi portarono fuori. Tuo padre aveva gli occhi lucidi: "E' bellissimo...".
Arrivammo in camera. Ero paralizzata dal seno in giù ma la lingua funzionava benissimo. Cominciai a parlare a velocità doppia, forse per effetto dell'ossigeno. Ero ipereccitata, volevo raccontare com'era andato il parto ma volevo soprattutto vedere te. E invece tardavi ad arrivare... Mandai tuo padre alla nursery due volte, per avere notizie. "Devono aspettare che torni la pediatra, è a fare il giro delle visite, manca la sua firma...".
Ma sta bene? E' tutto ok?
"Sì, sta bene".
Quanto pesa?
"Due chili e 700".
E' piccolino... non ci saranno complicazioni?
Tenevo l'occhio fisso sulla porta della camera. Non riuscivo più a dire niente, ad ascoltare nessuno. Tuo padre mandava messaggi ad amici e parenti. E io fissavo la porta della camera.
Finché non arrivò l'infermiera della nursery con la culletta.
Dentro c'eri tu. Con la tutina azzurra, la prima che avevo acquistato per te, in agosto, nella città di tuo padre. Ci tenevo che ti affacciassi alla vita con un po' di Liguria addosso.
Dormivi, placido.
Tuo padre ti prese dalla culla con una delicatezza infinita e ti appoggiò sul letto, di fianco a me.
Ci abbracciammo, finalmente in tre, e cominciammo a piangere.
Tu, per noi, sei nato così. In quel momento.
Cinque mesi fa.